Florent Coste
Intervento alla presentazione di Jean-Marie Gleize, Qualche uscita.
Postpoesia e dintorni (Tic Edizioni, 2021) TicTalk, 31 gennaio 2022
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Grazie a tutti per questo invito e questa bellissima serata postpoetica.
Mi sembra che oggi si presenti l’occasione per dire, o per ribadire, quanto sia importante un libro come Sorties, pubblicato in Francia dalla casa editrice Questions théoriques, e che la traduzione italiana Qualche uscita gli offre in modo tempestivo un nuovo spazio di circolazione.
Se posso permettermi di fare qualche concessione al giudizio estetico, questa è anche un’occasione per apprezzare pubblicamente la bellezza e la qualità di questa collana.
Riflettendo su ciò che Sorties ha rappresentato al momento della sua prima uscita, mi sono detto che varrebbe probabilmente e assolutamente la pena di considerare questo libro (e la sua traduzione) come una potente risorsa strategica, una risorsa che ci permette di raccogliere tutta una serie di armi utili a essere impiegate all’interno di un contesto specifico come quello del campo poetico francese, travagliato e attraversato da tensioni e lotte sue peculiari, ma la cui forza può senza alcun dubbio essere trasferita al campo e alla situazione dell’Italia.
E in questo contesto agonistico, ciò che caratterizza l’opera di Gleize, sia dal punto di vista della scrittura poetica che dal punto di vista delle sue formulazioni teoriche, è, direi, una sorta di minimalismo da combattimento.
- Questo minimalismo si basa soprattutto su una richiesta di letteralità, un’esigenza che lo stesso autore declina invocando i concetti di nudità, di povertà e di riflessività.
– Perché la nudità in primo luogo? La traduzione di Michele mi ha dato l’opportunità di rileggere Costumi, un testo che avevo, devo confessarlo, dimenticato. È un testo importante che discute la condotta da tenere quando si è consapevoli e lucidi riguardo al posto che si occupa all’interno del campo poetico. Si tratta in effetti, per la poesia, della necessità di spogliarsi e di liberarsi da certi costumi, da certi atteggiamenti fin troppo apertamente stravaganti o seducenti, da certe posture piene di fronzoli, da certe pose affettate, da tutta una scenografia mediatica che fa esistere la letteratura in un determinato campo dando appunto spazio solo ai “costumi che parlano”, che le concede un certo tipo di visibilità e le permette di richiamare a sé un certo tipo di riconoscimento. A questo Gleize risponde con la nudità, cioè con un atto di denudazione e di svestizione che punta a evitare di dover giocare il gioco dei “campi”, a evitare di esserne coinvolti. Che punta a non suonare falso.
– Segue, logicamente, e in modo complementare, la povertà. Il riferimento è ovviamente alla tradizione francescana, attraverso la mediazione cinematografica di Rossellini. Un francescanesimo di sinistra, bisogna subito precisare, in linea con certe forme di lotta (politica) contemporanea (si pensi al recente affaire de Tarnac, per esempio). È una scelta di discrezione volontaria, di invisibilità volontaria: non essere né immediatamente identificabili né immediatamente reperibili, abbandonare i propri percorsi istituzionali (fin troppo marcati), sfuggire al sistema generale (ambientale) di qualificazione, e (ri)appropriarsi al contrario degli strumenti stessi della propria qualificazione.
– La terza variante del concetto di letteralità è la riflessività. E questa nozione significa una poesia della lucidità accresciuta e affinata, e significa anche una teoria della corrosività; una poesia e una teoria che non si raccontano storie, che dopo il fallimento delle neo-avanguardie non se le raccontano a sé stesse, e che si sono liberate da un certo numero di mitologie. Si tratta di prolungare il processo intentato alla poesia, di prendere sul serio l’eredità iconoclasta di Rimbaud senza necessariamente dover ri-poetizzare o rinormalizzare Rimbaud. C’è, per così dire, un gesto di purificazione iconoclasta, un gesto che attacca corrosivamente i totem della poesia.
Queste tre parole chiave ritornano nella scrittura poetica e teorica di Gleize.
- Si tratta di gesti utili per elaborare una strategia efficace in una situazione di minoranza.
Walter Benjamin, in un testo su Bertolt Brecht, scriveva che una letteratura propriamente rivoluzionaria doveva interessarsi alle condizioni materiali d’esistenza dell’autore in quanto produttore, e chiedersi non quale fosse la sua relazione rispetto ai rapporti di produzione, ma quale fosse la sua posizione all’interno degli stessi rapporti di produzione, e come l’autore trasformasse i lettori o gli spettatori in co-protagonisti.
In questa prospettiva, bisogna tenere conto del posto residuale e francamente derisorio che la poesia occupa nel campo letterario che rimane ancora sostanzialmente difficile da mappare e coprire, nel più generale campo dell’editoria o, se volete, sulla globalità del mercato letterario. Gleize coltiva un’acuta consapevolezza di questa posizione minoritaria della poesia sperimentale, o diciamo, di ricerca.
Magari, possiamo dare un’occhiata al suo testo intitolato Opacità critica, posto alla fine di Qualche uscita (il testo originale si trova nel volume Toi aussi tu as des armes, uscito nel 2011 presso l’editore parigino La Fabrique). In questo saggio, c’è un passaggio molto semplice e fondamentale dal punto di vista teorico e politico, in cui si spiega che la poesia di ricerca si trova ai margini della poesia, e che questa si trova a sua volta ai margini della finzione letteraria, la quale si trova essa stessa a essere solo una piccola parte del romanzo commerciale, il quale rappresenta esso stesso solo una piccola parte di tutto quello che viene pubblicato.
Coscienti innanzitutto, in quanto tali, della relatività della nostra posizione. La nostra pratica è minoritaria, (o minore), marginale dal punto di vista economico, sociale e culturale. Nella massa totale di ciò che viene pubblicato, a occupare una posizione dominante è il testo non letterario. E nella massa totale di ciò che viene pubblicato in ambito letterario, a occupare una posizione dominante è la narrativa (romanzesca o altro, ma soprattutto romanzesca). E all’interno della letteratura romanzesca, a essere quantitativamente dominante è la produzione commerciale. Per quanto riguarda le cosiddette pratiche poetiche, nonostante le istituzioni (scolastiche e universitarie) continuino simbolicamente a mantenerle in uno stato di conservazione più o meno artificiale, la loro importanza è irrisoria. Se poi pensiamo alle cosiddette produzioni sperimentali o di ricerca, produzioni che, per principio, coincidono pochissimo o addirittura per niente con le definizioni che le stesse istituzioni letterarie tendono a inculcare e a imporre, possiamo dire che si collocano in un vero e proprio angolo cieco. Resta da stabilire che cosa possiamo farcene di questa posizione. Quale partito possiamo ricavare dalla nostra impotenza. Quale opportunità dalla nostra invisibilità. (Qualche uscita, pp. 181-182)
La diagnosi di Jean-Marie Gleize comprende almeno due livelli di analisi. A livello generale del mercato librario, la riservatezza e la marginalità della poesia non sono una novità, così come non lo è la condizione misera e precaria del poeta che ne deriva. È probabile che il processo di perdita di visibilità della poesia si sia avviato e si consolidi ulteriormente e meccanicamente nel nuovo contesto di industrializzazione e istituzionalizzazione del mondo della cultura, sullo sfondo delle trasformazioni economiche nel mondo editoriale (distruzione della catena del libro da parte del commercio online, marginalizzazione e indebolimento dell’editoria indipendente, logica della concentrazione oligopolistica nel mondo dell’editoria). Questa constatazione però non suscita alcun lamento in Gleize, non il minimo canto del cigno sull’imminente e fatale scomparsa della poesia. Al contrario, qui si trova uno dei significati politici della riflessività nel senso di Gleize.
Questo passaggio esiste anche in un’altra forma, come variante rimaneggiata per la postfazione all’edizione del 2014 di Sorties, e riformulata come segue. Lo leggo in italiano con la traduzione fatta da Michele due giorni fa (lo ringrazio qua, ma lo ringrazio per tutto):
(…) nell’insieme delle cose pubblicate, il testo non letterario occupa un posto dominante. Nell’insieme di ciò che viene pubblicato nell’ambito letterario, a occupare un posto dominante è la letteratura narrativa (romanzesca o d’altro genere, però in verità soprattutto romanzesca). All’interno della letteratura romanzesca, è la produzione commerciale che si trova in posizione quantitativamente dominante. Quanto alle cosiddette pratiche poetiche, la loro importanza è derisoria. Il territorio di queste pratiche poetiche, nella sua pur caratteristica ristrettezza, si ritrova poi quasi interamente occupato (in termini di visibilità e di riconoscimento effettivi) da qualcosa che si autopresenta sotto le sembianze di una poesia continuata…
Ecco, facciamo la filologia di Gleize: la variante sta proprio in questo, cioè nel fatto che, in questo incastro di livelli di dominazione, ci sono dei territori in lotta contro le forze di occupazione. Non solo l’industria culturale è sfavorevole, ma altre logiche, interne al campo poetico, accentuano questa retrocessione. Seguendo l’effetto zoom di Gleize, il campo della poesia sembra diviso da parecchie fratture interne: penso per esempio al conflitto tra Mostri e Cornuti secondo Nathalie Quintane (dove «il Mostro è considerato un Mostro solo dal Cornuto e il Cornuto è chiamato Cornuto solo dal Mostro»[1]) o ancora la polemica di Jacques Roubaud sul vroum vroum (che era un attacco apparso sul Monde diplomatique contro la poesia di performance[2]). La poesia, sia continuata sia restaurata (quindi, nei termini gleiziani: la neopoesia e la repoesia), prende tutto lo spazio, e occupando il terreno, lascia solo un ruolo minimale alla ricerca, alla sperimentazione.
Dietro le difficili e precarie condizioni di esistenza di case editrici indipendenti, di poeti e di traduttori, c’è una vera e propria lotta sulla nozione e sul valore della poesia, una lotta che non è solo concettuale o oziosa. In termini filosofici, si potrebbe dire che la letteratura e la poesia sono «concetti essenzialmente contestati», per usare l’espressione del filosofo Walter Bryce Gallie: cioè concetti che vengono definiti come aventi diversi significati concorrenti, incompatibili e conflittuali. Così con la poesia, se mi è concesso di prendere in prestito termini della logica, l’intenzione (cioè gli elementi della definizione) e l’estensione (cioè l’insieme delle realtà cui la parola si riferisce) si trovano sempre disallineati: o le definizioni e i loro criteri sono troppo restrittivi per catturare l’insieme della creazione poetica; o il concetto si basa su criteri troppo vaghi e aspecifici per catturare correttamente le pratiche poetiche di oggi senza portare a problemi di riconoscimento (cognitivo e sociale) ; la creazione, la ricerca e la sperimentazione contribuiscono a questi disallineamenti.
E, ripeto, questi dibattiti non sono solo filosofici o semantici: queste tensioni animano il campo e costituiscono la vita stessa dei poeti. E questo è il senso stesso della postpoesia di Gleize: lavorare alla de-definizione della poesia significa lottare all’interno di queste circostanze occupate e agonistiche per aprire uno spazio alla creazione.
Mi permetto di concludere sull’importanza del suo gesto: Jean-Marie Gleize ha contribuito a un lavoro più ampio a cui la casa editrice Questions théoriques si è dedicata. Poiché gli strumenti teorici abituali sono inefficaci per parlare della creazione contemporanea, bisogna elaborare teorie locali e provvisorie in grado di aiutarci a riconoscere, nel doppio senso del termine, oggetti e pratiche che erano in difetto di riconoscimento, per farle quindi diventare più visibili e più legittime.
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[1] https://www.sitaudis.fr/Incitations/monstres-et-couillons-la-partition-du-champ-poetique-contemporain.php
[2] https://www.monde-diplomatique.fr/2010/01/ROUBAUD/18717
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