Nelle giornate del secondo convegno Ex.it (ormai più di un anno fa), insieme agli autori ascrivibili all’attuale panorama della scrittura di ricerca (che comprende anche fotografi, videomaker, musicisti), sono intervenuti alcuni critici per un confronto sui problemi che quel panorama solleva. Noi che allora avevamo il compito di coordinare la discussione, cerchiamo qui di sviluppare qualcuno degli spunti emersi, affidando il resto del dibattito alla ricostruzione che la lettura dei singoli saggi del presente volume potrà suggerire. Tra gli argomenti affrontati, non riuscimmo ad aggirare la questione del soggetto, antico problema della poesia sperimentale, tanto antico da essere accolto da qualche convenuto con alzata d’occhi e aperte proteste. L’insofferenza non sembrava ingiustificata: una certa saturazione, una stanchezza del discorso – che ha le sue radici nell’aspirazione di Mallarmé a far parlare, in una poesia, il Linguaggio; nelle relative riflessioni di Valéry; nel rifiuto o nelle pretese di riduzione oggettivista, neoavanguardista, languagista – la si poteva effettivamente ammettere. E tuttavia, come segnalano alcuni passaggi dei contributi che si leggeranno, rimaneva un discorso da fare.
AL
Qui si potrebbe provare semplicemente a cambiare prospettiva. Per parte mia vorrei tentare di farmi soccorrere dalla psicanalisi lacaniana (del resto evocata in modo più o meno determinante in interventi come quelli di Giancarlo Alfano e di Gian Luca Picconi), cominciando a sdoppiare il soggetto in je e moi. (Valéry vedeva nei suoi Cahiers che «ci sono due persone in Io» correlativamente all’idea che «noi riceviamo il nostro Io conoscibile e riconoscibile dalla bocca altrui».)
Reimpostare la riflessione appoggiandosi a due istanze distinte può servire a ragionare del vecchio cruccio della riduzione/abolizione del soggetto senza svuotarne del tutto la casella, cosa che la scrittura, l’enunciazione (la produzione o riproduzione di enunciati) sembrano mal sopportare. Un discorso acefalo, totalmente acefalo, non può esistere. E a volte invece lo si è creduto, per esempio nella pratica di una mimesis della visione (l’école du regard, il primo Antonio Porta), sfidando l’idea cartesiana secondo cui la visione si lega a un soggetto di pensiero, e sfidando l’osservazione valériana di un fatto semplice: «prima ancora di significare una qualsiasi cosa ogni emissione di linguaggio segnala che qualcuno parla».
Sfide perdute in partenza, che consigliano un pacifico ritorno a Cartesio – ne parla Fabio Zinelli (pp. 99-103) per alcuni autori extra-ex.it e per Andrea Inglese, il quale però se vi ritorna è per dirgli addio, per farla finita con l’ego, ridotto a pezzo tra gli altri («pezzo principe» del soggetto, mentre sul patriziato si alzano le lame delle ghigliottine) – a meno che non si prenda la direzione prevalente di Ex.it – cui Inglese si conferma allora organico – che appunto prevede una obliqua ma riconoscibile andata a Lacan: la distinzione tra je e moi, con la messa in crisi di quest’ultimo (e in proposito si potrà citare l’Alessandro Broggi di Protocolli: «l’ego è una finzione, non c’è un “me”, si tratta soltanto di una tecnica discorsiva»).
MM
Per quanto mi riguarda (e nonostante la psicoanalisi mi sia assai cara), sarebbe opportuno, per una volta, se non uscirne completamente, almeno allontanarsi dalla dimensione strettamente psicologica dentro la quale sembra essere rinchiuso il discorso sul soggetto (colpa del Novecento, potremmo dire). Tutto sommato quello che si sottopone a (giusta) critica è il soggetto lirico (è un aggettivo che dovremmo sempre aggiungere, per comprenderci meglio), che viene più o meno a coincidere con l’io che parla e prende posizione rispetto al mondo, che, in buona sostanza, riduce il mondo alla propria esperienza privata. In questo modo ci si dimentica per lo meno la dimensione linguistica del soggetto e, soprattutto, quella antropologica. In occasione del dibattito di Albinea 2014 mi è capitato di lanciare l’ipotesi (neanche troppo estemporanea) di sostituire al termine soggetto – quale problema e bersaglio critico – quello di identità, sulla suggestione di un interessante saggio di Francesco Remotti intitolato, appunto, Contro l’identità. A distanza di un anno mi pare che tale categoria riesca più comprensiva di quella di soggetto, dal momento che implica anche risonanze collettive (il soggetto noi, il soggetto comunità) piuttosto considerevoli.
AL
La prospettiva che tu indichi attraverso il concetto identitario – già richiamato a vario titolo da Renata Morresi a proposito di Charles Bernstein e di Rachel Blau DuPlessis (pp. 63 e 68), e più di passaggio da Gian Luca Picconi (p. 86) e Fabio Zinelli (pp. 94 e 96) – mi pare si sovrapponga felicemente a quella che tentavo di proporre. Il moi è oggetto che consiste in un aggregato di identificazioni, a partire da quella che per il bambino prende forma di fronte allo specchio (stade du miroir), che realizza un’unità ideale e immaginaria, e alienata, dal corps morcelé, dal corpo-in-frammenti. Lavorare a un’abolizione nell’ambito del soggetto risulta dunque possibile col fatto di lasciare comunque operativa un’istanza, che, peraltro, sottrae al lettore il suo, di specchio. Si tratta di superare un’idea narcisistica della realtà, la presunta validità (nonché l’interesse) di una visione del mondo 1:(X-1), dove 1 è l’individuale che fa valere la sua illusoria, immaginaria identità nei confronti del mondo visto come (X-1), come altro da sé, quando è invece chiaro che il mondo quell’1 lo include.
Il fatto è che il rapporto tra je e moi costituisce un modello fondamentale per la relazione tra il soggetto e il mondo (anche questo lo aveva intravisto Valéry): e dunque, se si vuole smetterla con il lirismo (almeno con un tipo di lirismo), l’abolizione del polo ideale, della proiezione immaginaria del moi è un passaggio decisivo.
MM
Chioso di sfuggita: in termini di politica della letteratura (espressione che adopero in una accezione molto ampia), credo che smetterla con il lirismo, come dici tu (e concordo), non sia semplice. Il lirismo, cioè quella tipologia di espressione poetica, corrisponde più o meno all’opinione comune riguardo alla poesia: per molti è la poesia (cioè qualcosa di viscerale, che emoziona). Le spiegazioni che potremmo addurre sono di vario ordine: se restiamo alla dimensione psicologica, il lirismo, secondo la tua lettura lacaniana, è in fondo piuttosto gratificante per il moi. Accanto a tale circostanza ce n’è comunque un’altra, che ha a che fare con la comunicazione: se, malgrado le sue molteplici declinazioni, il lirismo perpetua una determinata tradizione, è perché la tradizione medesima funziona come una forma di comunicazione, cioè perché “si legge con facilità”. Il canale è già aperto, il lettore/fruitore non ha bisogno di stimoli, mentre la discontinuità implica un coinvolgimento attivo, una ricerca, che quindi non è soltanto dell’autore, bensì anche del lettore.
AL
Insomma, sul punto fondamentale dovremmo essere d’accordo, e ricalcare le intenzioni di riduzione soggettiva dei nostri autori. Non sono invece convinto che il problema sia quello del soggetto lirico. La questione mi sembra più vasta, se non addirittura un’altra: con il riferimento a Lacan vorrei mettere sul tavolo, tra le altre cose, la tripartizione immaginario-simbolico-reale, che impone una revisione radicale dell’opposizione io-mondo presupposta dalla poesia lirica, dalla poesia oggettiva, e dal loro fronteggiarsi.
La distinzione tra moi e je potrebbe addirittura consentirci di “riabilitare” (in un contesto come questo, di derivazione avanguardistica) la dimensione lirica, di distinguere una lirica dell’io, che qui si continuerà a stigmatizzare, e una lirica del soggetto, categoria alla quale potrebbero ascriversi non pochi testi di Ex.it. L’esibizione strutturante del primo pronome personale evidentemente c’entra poco, come rimarca Vincenzo Ostuni (pp. 69-70: ma non direi che la questione sia tematica, però): si tratta del rapporto diatetico tra linguaggio e mondo (ripeto: il soggetto vi è incluso, e anzi: è necessariamente incluso in entrambi), cioè del fatto che il linguaggio sia in un caso passivo e nell’altro attivo (la riflessività essendo ubiqua).
Pensando a come dare evidenza alla differenza tra lirica dell’io e lirica del soggetto, mi viene in mente l’uso della head o helmet-cam (a esemplificare qualunque tecnica filmica soggettiva, compreso il POV porno-grafico), da un lato, e dall’altro l’uso della reverse helmet-cam (come nel videoclip di Jigsaw Falling into Place dei Radiohead, diretto da Adam Buxton e Garth Jennings nel 2007). Il primo caso è comune: si imita lo sguardo soggettivo, si mostra ciò che vediamo, si pretende che il lettore, spettatore, fruitore, voglia adottare i nostri occhi. Nel secondo mostriamo quel brano di mondo che abbiamo alle spalle, in cui siamo immersi al di là della nostra percezione e della nostra intenzione, la visione del quale è subordinata ai nostri movimenti, al nostro corpo, ed è tanto meno chiara quanto più agiamo e agitiamo (ovviamente in funzione di quel brano di mondo, di quello spazio) la nostra presenza; in ogni caso la visione non è subordinata al nostro sguardo. (Mi sembra altra cosa – e meno adatta a spiegare Ex.it – la «curvatura autoriflessiva», lo «sguardo sulla propria nuca» di cui scrive Paolo Virno, p. 88.) E non è come stare allo specchio, perché nella cornice fissa del volto gli occhi si muovono (o stanno fermi) non più coordinati con la visione. Questi sono la soggettività e il lirismo ammessi e (fatta qualche eccezione) frequentati da Ex.it.
Allo specchio è il moi, e si pone come utilizzatore del linguaggio, si dà da fare per produrre significati da destinare agli altri moi-segnaposto del suo orizzonte, per produrre una parola enunciativa che si risolve di fatto, sempre lacanianamente, in domande di riconoscimento, quindi in ulteriori tentativi di identificazione. (Parola enunciativa. Marco Giovenale suggerisce da qualche tempo il carattere non assertivo di alcune scritture rappresentate in Ex.it: la questione è al momento dibattuta con altri autori dell’area di ricerca, in particolare su “Nazione Indiana”, ma non manca qualche immediata adesione come mostra il monografico italiano della rivista svedese “OEI” – n. 67-68 –, che la redazione ha scelto di intitolare appunto «scrittura non assertiva!». Io mi sentirei di indicare come non frequentata da certi testi addirittura la dimensione dell’enunciazione, intesa – cito Greimas – quale «istanza di mediazione che produce il discorso»: istanza che presuppone un io, o che al limite lo instaura.) Lo je manda in frantumi lo specchio, lascia esposta prescindendo da qualsiasi identificazione la matrice linguistica, simbolica della immagine riflessa, lascia intravedere quella realtà strutturata linguisticamente che precede il moi e che rifiuta una decifrazione ermeneutica ma incorpora i sensi da cui siamo attraversati.
La decostruzione del moi di cui sto parlando qui vale come decostruzione generale, tanto del moi-idéal (il doppio speculare) quanto dell’idéal du moi che prende forma attraverso la figura della normazione paterna (su cui ha assai utilmente fermato l’attenzione Picconi, diagnosticandone il superamento per Ex.it), che teoricamente dovrebbe creare una frattura con il rispecchiamento narcisistico, ma che in realtà trasferisce quel rispecchiamento nell’ordine simbolico e quindi sociale, politico. E insomma – sul piano testuale e sul piano linguistico – i movimenti di Ex.it paiono coerentemente orientati alla stessa decostruzione del simbolico che le figure normative introducono. Si riparte dallo je, che a differenza del moi non tende a ridurre un oggetto (il mondo) al significante, a catene significanti, di fatto annullandolo nella propria attività simbolica, bensì nel mondo sta (X-1 + 1) senza essere da questo separato: vedere, dire il soggetto e il mondo (qualche loro porzione) diventa la stessa cosa. Si riparte dal corpo-in-frammenti (Rosa Menkmann lo rappresenta efficacemente in 01-05, à la Jiří Kolář): condizione che il complesso edipico solamente minaccia, di fatto consolidando (nel passaggio dall’immaginario al simbolico, nell’introiezione delle norme culturali) il processo identificativo e unificante.
Giancarlo Alfano parla di una «soggettività incarnata nell’instabilità del flusso percettivo» (p. 21), e questo per alcuni autori è vero, ma per la parte maggioritaria di Ex.it mi pare che quell’instabilità, che certo si dà, sia del linguaggio piuttosto che dei sensi – i quali peraltro, per arrivare a tradursi in linguaggio, hanno bisogno di una neurologia organizzata, centralizzata (di un corpo che non sia senza organi, che sia produttivo, capace di produrre lavoro utile, à la Deleuze, via Artaud e con Guattari), di un moi: al limite può fingere di essere in-frammenti, ipotizzare la separazione dei propri sensi (che riconosce come propri) da sé, che ha esito comunque in una «ricomposizione identitaria del soggetto» (p. 24). Che è quanto qui stiamo cercando di sottoporre a critica: esteticamente, e di conseguenza politicamente, in Ex.it l’identità è abolita. Non si tratta di abolire l’utilizzo della prima persona, abbiamo detto: si prenda Enfance, seconda delle Illuminations di Rimbaud: le sezioni II e III si strutturano sulla percussione anaforica di «il y a» da una parte e di «je suis» (che peraltro va a estinguersi tra il penultimo e l’ultimo paragrafo) dall’altra, depersonalizzando completamente, sottraendo completamente il moi alla grammaticale esposizione di un soggetto (che ovviamente è un autre, perlomeno); ed è di questo che si tratta.
Perciò manca la coerenza, per questo ci sono problemi di tenuta testuale, come obietta sempre Alfano (p. 23). La coerenza – sul piano strutturale come sul piano dei contenuti – viene relativizzata perché il paradigma estetico che la prescrive è figlio, esattamente, del moi. Una certa coerenza, intitolava Michele Zaffarano in Ex.it 2013; lo ricorda Picconi, che in proposito dice una cosa decisiva: l’autore «non pone più il problema del testo nei termini della coerenza assertiva del messaggio» perché si trasforma «da garante della coerenza istoriale e destinale del testo a testimone contingente del presente e della presenza del mondo» (p. 85). Un testimone di spalle, vorrei precisare: grazie alla immaneggiabile protesi della reverse cam, il mondo di cui il lettore/fruitore partecipa non è determinato da sguardi e da intenzioni, ma dai corpi che quel mondo accoglie condizionandone i movimenti.
MM
La questione del soggetto, lo abbiamo detto mille volte, è di quelle che fanno tremare i polsi. Io ho la sensazione che spesso venga confuso con l’io puro e semplice, cioè, lo ribadisco, con l’io lirico. A me, come si sarà capito, il soggetto interessa soprattutto in termini antropologici e soprattutto storici. Se ci spostiamo sul versante dell’identità, cui accennavo all’inizio, dobbiamo chiamare in campo il suo opposto, ossia l’alterità. Nelle ultime pagine del suo saggio, al termine alterità Remotti associa quelli di molteplicità, flusso e mutamento. Ecco, semplificando al massimo, possiamo dire che le scritture presenti in Ex.it non sono costruite a partire da un’identità chiusa, avvolta in sé stessa, ma piuttosto sull’appello continuo all’alterità (in concomitanza con le altre nozioni appena esposte). Direi che le scritture di cui andiamo parlando danno pienamente conto di questo spostamento del fuoco, ormai assodato tanto dalla psicologia quanto dall’antropologia. Spostamento che, piaccia o no, ha appunto origini storiche. Le motivazioni storiche di questo “alleggerimento” del sé ci sono ben note, ma vale la pena per lo meno citarne una, cioè quella precarizzazione generalizzata che è il principale prodotto sociale del tardo capitalismo (naturalmente mi rifaccio alla nozione di Jameson). Non possiamo certo addossare ai materiali di Ex.it l’accusa di mimetismo (anche se una riflessione più approfondita sul rapporto con i media e con il flusso della comunicazione sarebbe opportuna) o, peggio, di naturalismo (il neo-oggettivismo entro cui possiamo ascrivere scrittori come Marzaioli o Giovenale, per citare due soli esempi, è davvero tutt’altra cosa), tuttavia a me appare evidente che il modo di strutturarsi dei materiali risponda in qualche misura a questa dimensione storica. E vi risponde anche in termini propositivi, cioè approfitta di una crisi dell’identità per fare più spazio possibile all’alterità. Solo in questo senso mi pare praticabile la nozione di «non assertività» proposta da Giovenale, nozione che in ogni caso non mi sento di elevare al rango di categoria critica, perché non credo che possa rivelarsi utile per circoscrivere un’area di ricerca. Al contrario, la ritengo ben più opportuna come grimaldello interpretativo cui ricorrere di volta in volta per entrare nei singoli testi.
Una precisazione: quando parlo di alterità, intendo tale nozione nella sua accezione più vasta. È indubbio che la letteratura (è di questo che parliamo, soprattutto) negli ultimi anni si è aperta verso ciò che letteratura non è. Del confronto con i media e in particolare con le arti visive (la fotografia su tutte) si è detto più volte; tu stesso, per dar forza alle tue argomentazioni rispetto a questioni in primis letterarie hai fatto ricorso all’esempio di un video musicale (a mia volta, io ricorro sovente al linguaggio filmico per parlare di scrittura). Meno battuto mi appare invece il terreno del confronto con quelle forme del linguaggio e della scrittura che non hanno in origine una destinazione poetica (il termine lo intendo in maniera classica, more jakobsoniano). È un campo piuttosto prolifico, perché leggendo i testi contenuti nell’antologia del 2013 si rinvengono numerosi “materiali fuori contesto” di derivazione scientifica, per esempio, o provenienti dalla lingua d’uso.
AL
Con la questione dell’alterità mi sembra che tu colga un punto fondamentale, a proposito del quale vorrei convocare Paolo Giovannetti, il quale accenna a una «poesia virtuale, forse avvenire» (p. 41) richiamando l’idea di Käte Hamburger intorno alla scrittura di Ponge – e poi la definizione pasoliniana della sceneggiatura come «struttura che vuole essere un’altra struttura» (p. 45) – che sembrerebbe consistere di materiali per opere di là da essere scritte, da essere composte. Ecco: quella composizione assomiglia a quella del moi ed Ex.it se ne tiene a distanza; quell’alterità, invece, che si presenta anche come ulteriorità, potrebbe essere ciò che Ex.it cerca da vicino.
MM
Sì, credo infatti che sia questo il senso principale del nome Ex.it: il rimando a qualcosa che sta altrove.
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